Gianni ha sempre indossato la cravatta per andare al lavoro. Una forma di rispetto per tutta la storia racchiusa fra le mura della sua tipografia, e per l’arte che ancora serve per farla vivere. Gianni – all’anagrafe Giovanni Ottaviani, «ma tutti mi hanno sempre chiamato Gianni» – è la settima generazione della famiglia che nel 1799, nei locali di un ex convento di suore del centro storico di Città di Castello, diede vita alla Tipografia Grifani Donati. «È l’unica attiva in tutta Europa a stampare ancora con le tecniche dirette che sono la rilievografica, incavografica e litografica», precisa subito Gianni, che oggi è il titolare del laboratorio. È lui ad accompagnare chiunque abbia la passione di ascoltarlo in quello che, più che una visita guidata, è un viaggio nella storia della stampa.

«Molte volte noi occidentali confondiamo l’invenzione della stampa con i caratteri mobili con la stampa vera e propria. La stampa nasce in Oriente per motivi ornamentali – in Mongolia, Iran, India, Cina – e arriverà da noi nel VII secolo grazie agli arabi», spiega Gianni, iniziando a prendere uno dopo l’altro gli strumenti del mestiere disposti ovunque nella tipografia: matrici, bulini, fogli di carta, inchiostro, lentino (“che in realtà si chiama contafili perché il primo utilizzo che se ne fa è per la tessitura, contava i fili in trama e ordito”). «Le prime incisioni che si fanno sono di immagini sacre. Poi arriva il nostro carissimo Giovanni Gutenberg (che altro non era che un orefice, è abbastanza ovvio perché gli orefici conoscono i bulini, gli utensili, fondono i caratteri, tant’è che il piombo è una lega – piombo, antimonio e stagno) che riprende quello che facevano gli amanuensi. Lui sceglie il Fraktur come carattere, detto anche gotico. Non è di facile lettura ma ad esempio i tedeschi continueranno a usarlo fino al 1936: sarà Hitler a scegliere i caratteri latini per rendere leggibile a tutti il suo Mein Kampf. Con Gutenberg si passa dall’apprendimento mnemonico della tradizione orale ad avere un testo fra le mani: per l’uomo cambia la visione del mondo», continua Gianni.

E mentre secoli di storia dell’uomo si condensano nelle sue parole, Giovanni Ottaviani si muove veloce da un punto all’altro del suo laboratorio, fra le attrezzature straordinariamente conservate, perfettamente funzionanti e tuttora in uso nella tipografia: un Torchio tipografico Elia Dell’Orto 1864, una Platina Tiegeldruk 1903, un Torchio a stella Bollito & Torchio del 1880, un Torchio calcografico Paolini 1960, una Pianocilindrica Werk Augsburg 1910, un Torchio litografico Kruse 1906 oltre che centinaia casse di caratteri e fregi cliché, silografie e galvanotipie. «Quando scegliete i corpi dei caratteri (4, 6, 8, 12…) come ne misurate la grandezza? In millimetri? No. In centimetri? Neanche. Sono punti Didot e un punto corrisponde a 0,376 mm – spiega fermando fra le dita una minuscola barretta di metallo -. Il tipometro viene inventato nel 1760, quando Luigi XVI (quello che perde la testa dietro a una donna sotto la ghigliottina) incarica François-Ambroise Didot, che faceva parte di una famiglia di stampatori ma era anche un matematico, di stabilire un’unità di misura che fosse valida solo per gli stampatori, e così inventa il tipometro. Ci vuole tanta pazienza in questo lavoro… Ci vorrebbero tre braccia ma purtroppo il Padreterno ce ne ha fatte solo due», dice mentre un punto Didot continua a sfuggirgli dalle dita.

Gianni ha passato praticamente tutta la vita fra le mura della tipografia. «Quando ero piccolo mio nonno mi ha detto: “per vedere se hai composto bene metti la mano sopra così e visualizzi il ribaltamento delle lettere”», ricorda mentre velocemente prende i caratteri per comporre il nome di chi scrive, vi poggia sopra il palmo della mano, lo solleva e lo mostra come se già il nome vi fosse rimasto impresso. «Noi adulti perdiamo la capacità di leggere al contrario. Anche le scuole vengono a visitare la tipografia e fino alla terza elementare quando faccio vedere a un bambino la composizione legge subito “Giulia”, nessuno gira la testa. Certo, devono saper leggere. Già in quarta hanno imparato a ragionare con un certo schema mentale e iniziano a girare la testa per leggere la composizione speculare», spiega.

E fra inchiostri, torchi e stampe tipografiche che poi il visitatore si porta a casa come ricordo, il laboratorio si snoda attraverso quelle che un tempo erano anche le stanze della casa della famiglia Grifani Donati. Fino ad arrivare a uno studio con le pareti colme di foto e libri, dove si conclude la visita. «Questo qua è il mio “quattro nonni fa”» dice Gianni indicando uno scatto in bianco e nero che ritrae un distinto signore con un paio di grandi baffi: «Giuseppe Grifani, lo chiamavano anche il nonno Brontolo e io ho preso molto da lui. Quel signore lì sulla destra con il cappello» dice indicando un’altra foto appesa nello studio «è il mio trisnonno, si chiamava Giuseppe Ottaviani ed era il fattore del Marchese del Grillo. Tutte le cose che dice Alberto Sordi nel film sono vere, a me le ha raccontate mio nonno: quando voleva la frutta secca gli tirava le pigne», ricorda sorridendo.

di Giulia Virzì