Quest’anno si celebra il 550mo anniversario della morte di Johannes Gutenberg, colui che tra il 1454 e il 1456 inventò la stampa tipografica, introducendo l’utilizzo dei caratteri mobili.

Poteva diventare l’inventore più ricco del mondo e invece è morto in condizioni di semi-indigenza. Di lui si sa pochissimo, non si conosce neppure l’esatta data di nascita, fissata per convenzione al 1400. Si sa che fu l’apprendistato da orafo a Strasburgo – dove la famiglia si trasferì per motivi politici – a ispirargli quegli esperimenti condotti in estrema segretezza dai quali scaturì l’invenzione che tutti conosciamo. Una volta imparate le più sofisticate tecniche di fusione, infatti, Gutenberg tornò a Magonza, si mise in società con un certo Fust (che aveva i capitali necessari per gli investimenti iniziali) e riuscì a ricavare i duecentonovanta caratteri con i quali in tre anni – più o meno lo stesso tempo che sarebbe occorso a un amanuense – realizzò l’universalmente nota Bibbia a quarantadue linee, in centottanta esemplari, da vendere sul mercato di Francoforte. Oggi di quei centottanta esemplari ne esistono solo quarantotto ancora completi, ognuno con un valore complessivo di dieci milioni di dollari.

Ma torniamo alla segretezza con cui Johannes Gutenberg operò nella sua tipografia di Magonza, muovendosi tra fondite a ripetizione, messa a punto della formula chimica dell’inchiostro migliore e composizione delle pagine attraverso il nuovissimo torchio tipografico: perché non rivelare al mondo quello che stava per venirne fuori?

Per due motivi: innanzitutto perché tutti (con abbastanza denaro, è ovvio) avrebbero potuto copiarlo e poi perché in un secolo di tali superstizioni, chiunque realizzasse una nuova tecnologia poteva essere tacciato di essere in combutta con il diavolo e accusato di stregoneria. Anche la Chiesa in quel periodo non era affatto tenera con la scienza, figuriamoci cosa avrebbe potuto fare a chi aveva la presunzione di moltiplicare la diffusione della Parola di Dio con blasfemi dispositivi meccanici!

La stampa – è innegabile – destò immediatamente un certo scalpore e ottenne un notevole successo, ma non bastò al socio di Gutenberg, Fust, come moneta con cui ripagare il prestito accordato: l’orafo sciolse la società per fondarne una analoga con Schöffer, il miglior tipografo sul mercato, che per la concorrenza perfezionò la nuova tecnologia introducendo anche la stampa a più colori.

Gutenberg incassò il colpo; cercò di mettere in piedi un’altra tipografia, ma senza troppo entusiasmo né fortuna, complice anche una sanguinosa guerra civile che scoppiò a Magonza in quello stesso periodo. Di lì a pochi anni il grande inventore morì, povero se non fosse per una pensione concessa da un signorotto locale che gli consentì di vivere almeno dignitosamente, e nell’oblio più totale da parte del pubblico, proprio come accadrà, tre secoli più tardi, a un altro genio incompreso del suo campo: Mozart. Di entrambi, curiosamente, non si conosce l’esatto luogo di sepoltura.

 

La stampa, però, proprio come le immortali composizioni musicali di Mozart, ebbe invece un successo fulmineo e impressionante: un secolo più tardi tipografie erano state aperte in ben duecentosettanta città e in appena cinquant’anni furono stampati quarantamila libri per un totale di dieci milioni di copie.