Dopo anni di crisi il settore grafico editoriale italiano è stremato. Non si contano più le aziende in ginocchio, le commesse stanno evaporando come posti di lavoro, e il segno più nei fatturati è ormai un ricordo, per non parlare della redditività. Inutile provare a tenere il conto di quante imprese hanno chiuso o stanno per farlo, è peggio di un bollettino di guerra. A questo scenario che mescola rabbia e impotenza si aggiungono purtroppo anche autentiche tragedie personali, come il recente suicidio di Giorgio Zanardi che non ha voluto sopravvivere alla sua azienda. E di fronte a questa situazione limite è arrivato il momento di chiedersi se si sta facendo tutto il possibile per fermare il declino e rialzare la testa, o se non si preferisca piuttosto continuare a tenerla sotto la sabbia. Sì, perché nella speranza di evitare il crac forse si stanno usando armi spuntate, che non servono a niente se non fanno addirittura più male che bene. Parliamo della procedura del concordato preventivo con continuità aziendale, che comincia a mostrare tutti i suoi pesanti difetti. Eppure all’inizio era sembrata un’ottima idea. “Il concordato in continuità è stato introdotto tra le misure di stimolo e crescita economica per facilitare la gestione delle crisi aziendali favorendo in vari modi la prosecuzione dell’attività – chiarisce Gianfranco Mensi, esperto di gestione delle risorse umane e partner della vicentina Sinthema (foto) –, al fine di salvaguardare sia il patrimonio della società che i posti di lavoro mentre si individuano possibili soluzioni per il rilancio. Una procedura simile al Chapter 11 della legge fallimentare americana, che prevede anche la sospensione dei pagamenti ai creditori”. Il punto debole è proprio questo, almeno per l’Italia: la sacrosanta preoccupazione di tutelare temporaneamente un’azienda che può ancora risollevarsi è stata a volte trasformata (troppo spesso, si dice) in un’allegra scappatoia per non pagare i debiti dopo aver lasciato incancrenire i problemi della società, lasciando il cerino acceso in mano ai creditori e portandosi via ciò che resta di buono. In quest’ottica, molte crisi dovrebbero essere raccontate in modo diverso. (testo segue sotto foto) Gianfranco Mensi di Sinthema Quindi certe aziende sono più tossiche da vive? Lasciare fallire è meglio che tentare di salvarle? “Bisogna ammettere che il rischio di disperdere risorse nonostante le migliori intenzioni è reale e tutti dovrebbero assumersi le loro responsabilità per il bene comune – conferma Mensi –. In effetti la situazione si sta avvitando: se fino a poco tempo fa i creditori potevano sperare in un incasso del 15% sul dovuto, oggi si rischia di ottenere molto, molto meno pur di portare a casa la conclusione della procedura. È chiaro che l’approccio alle situazioni di crisi va ripensato”. E allora? Per evitare che l’applicazione della legge alla lettera danneggi i creditori, quindi tutto il settore, bisogna che ciascuno faccia la sua parte. Da un lato serve il massimo rigore da parte di giudici e consulenti perché controllino e distinguano i veri concordati in continuità da quelle scorciatoie che abbiamo descritto. Dall’altro i fornitori stessi devono imparare a riconoscere i buoni clienti da quelli poco affidabili, magari evitando di prendere certe commesse “perché si”, a rischio di trovarsi poi con crediti inesigibili che possono decretare anche la loro fine. Ma la maggiore responsabilità pesa sulle aziende oneste. “Serve più cultura d’impresa – spiega Mensi – per capire che non bisogna vergognarsi di ammettere la crisi, che è meglio chiedere un aiuto quando le difficoltà sono superabili ed è più facile trovare partner o sostegni finanziari, che è assurdo gettare il proprio patrimonio nell’impresa senza prima ristrutturarla… Il rigore e la chiarezza all’inizio potranno portare a scelte dolorose, a chiudere più aziende di quante già oggi siano in difficoltà, ma alla lunga l’effetto sarà positivo per tutto il sistema industriale”.
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