di Andrea Kerbaker – Il Corriere

Giorgio Lucini, decano degli stampatori italiani, se ne è andato la notte di Ferragosto, all’età di 77 anni; la tipografia italiana ha perso un maestro e la comunità culturale una persona coltissima, amena, divertente, «di ottimo carattere», come scherzava lui con una battuta rubata al suo amico Bruno Munari.

Di terza generazione, Lucini aveva ereditato l’azienda di stampa dal padre e dal nonno, che l’aveva fondata negli anni Venti. Tecnicamente era una tipografia; ma chiamarla con quel nome era riduttivo: fin dall’inizio l’impresa era nata come «officina di arte grafica», con tutto quanto questa definizione tanto impegnativa comportava. Cosi da subito la sede di via Piero della Francesca era stata frequentata da artisti e grafici di primissimo livello, che trovavano nella famiglia Lucini i giusti complici per sfide tipografiche sempre più complesse.

In quell’ambiente Giorgio era entrato con i calzoni corti, negli anni Sessanta, e il suo apprendistato lo aveva fatto con personaggi come Dino Buzzati, con il quale si era cimentato in alcuni dei suoi libri d’artista (e si sa quanto Buzzati tenesse ai suoi disegni), o Emilio Isgrò, in particolare per La bella addormentata nel bosco, una favola cancellata per cui si erano resi necessari quattro diversi passaggi di nero: cose che a dirle paiono facili, ma che comportavano competenze tecniche quasi acrobatiche. Il più esigente di tutti era certamente Munari, tanto che si era reso celebre anche con i suoi famosi «libri illeggibili», stampati in decine di formati e colori diversi, che senza Lucini impossibili sarebbero stati davvero. In quella complicità, i due sapevano anche divertirsi come matti. Esemplare il caso di un committente che chiese alla coppia un calendario; loro, inorriditi all’idea di fare una banalità, gli stamparono una nuda lista con 365 numeri, ma togliendogliene un paio, «tanto nessuno se ne accorge».

Altrettanto felicemente ironico l’altro grande amico di una vita, Vanni Scheiwiller, straordinario editore che pubblicava il meglio dell’arte e della poesia italiana in edizioni preziose di formato minimo («libri farfalla» nella definizione di Eugenio Montale), entrate a far parte del Pantheon delle migliori produzioni italiane del secolo scorso. Anche per lui Lucini ha sperimentato il meglio in termini di qualità di stampa, in particolare nelle edizioni a tiratura limitata, con litografie dei più grandi artisti. Accanto a loro Paolo Franci, altro personaggio di grande caratura che per anni ha pubblicato per i suoi amici piccole strenne sofisticatissime, in cui, tra l’altro, sono apparse in prima edizione italiana le poesie di Seamus Heaney o Wislawa Szymborska, assai prima che il Nobel li rendesse noti al nostro pubblico.

Ma Lucini è stato uomo troppo spiritoso per poter essere ricordato solo per il suo lavoro. Tre, almeno, le sue passioni primarie: i papillon, di cui possedeva una memorabile collezione; i locali stellati, che frequentava assai prima che gli chef diventassero il fenomeno di moda di questi anni; e i viaggi. Di solito, a cercarlo d’estate, lo si trovava con la moglie Clara — la Pulce, per lui e per gli amici — nel Laos, sulla Transiberiana, o chissà dove.

Inutile provare ora, purtroppo: al suo recapito attuale il cellulare non prende. Ma forse lo disturberemmo: se paradisi esistono, come diceva il suo amico Scheiwiller citando E.E. Cummings, certamente nel suo è già attiva una tipografia dove lui sta studiando come migliorare i caratteri di stampa dei comunicati celesti.