Assolto perché il fatto non sussiste. A 21 anni di distanza dal crollo nel 1998 dell’edificio di via Vigna Jacobini a Roma in cui morirono 27 persone tra cui cinque bambini, si chiude con sentenza di assoluzione da parte della Terza Corte d’appello di Roma la vicenda giudiziaria di Mario Capobianchi, all’epoca amministratore della Tipografia San Paolo che si trovava nel seminterrato del palazzo. Unico imputato del processo, Capobianchi era accusato di disastro e omicidio colposo perché quello che si ipotizzava era che il processo di degrado del calcestruzzo – che ha portato al crollo dell’edificio – fosse stato accelerato dagli effetti dell’attività tipografica.

«In particolare secondo l’accusa l’esercizio tipografico aveva determinato un microclima sfavorevole per l’aumento delle temperature dovuto al funzionamento delle macchine da stampa. Una teoria rimasta del tutto priva di supporto scientifico», spiega a il Poligrafico l’avvocato Alberto Misiani che ha rappresentato Capobianchi nel processo: «Il clima interno al seminterrato è stato misurato da un responsabile per la sicurezza del lavoro ed era di 4 o 5 gradi superiore all’ambiente esterno, fatto riscontrabile in qualunque ambiente chiuso».

L’assenza di causalità fra il livello di temperature all’interno dell’azienda e il crollo dell’edificio è stata messa in evidenza dalla sentenza di assoluzione – la seconda nei confronti di Capobianchi – emessa il 2 ottobre dalla Cassazione. «Secondo la prima, l’attività tipografica aveva accelerato il degrado della struttura ma Capobianchi non poteva prevedere questa conseguenza perché in qualsiasi struttura sana l’attività tipografica sarebbe stata irrilevante. In questa seconda sentenza il nesso di causalità viene smentito, l’assoluzione è ancora più piena perché viene esclusa qualunque correlazione tra l’attività tipografica e il crollo. L’esito è quello che speravamo, anche se speravamo di raggiungerlo prima», spiega Misiani.

Una lunga vicenda processuale, che inizia con una condanna a due anni e otto mesi (sia a Capobianchi che a Vincenzo Mudanò, l’altro amministratore della tipografia all’epoca della tragedia, nel frattempo deceduto), poi ridotti a due anni nel primo processo di appello. Poi il primo annullamento con rinvio della Cassazione e un processo d’appello concluso con l’assoluzione perché “il fatto non costituisce reato”, poi un nuovo annullamento dei Supremi giudici per riconsiderare il nesso di causalità contemplato nella prima sentenza. Oggi la sentenza definitiva, con assoluzione piena. Capobianchi ha lasciato l’attività tipografica all’indomani della tragedia.

Il presidente del Comitato Vittime del Portuense, l’avvocato Francesca Silvestrini, ha espresso all’agenzia AdnKronos “molta delusione, una sensazione di impotenza” per la sentenza della Cassazione, che chiude una vicenda ventennale per cui non è stato individuato un responsabile. «Questa vicenda non è un “mistero italiano”: il palazzo è crollato perché è stato progettato con pilastri troppo piccoli per il peso che avrebbero dovuto sopportare, e per la cattiva qualità del calcestruzzo che era fragile sin dall’inizio. Alla fine del processo di primo grado c’era stato un provvedimento del tribunale per procedere nei confronti del progettista, del costruttore e di altri responsabili dell’edificazione, ma probabilmente è stato tutto archiviato», conclude Misiani.

di Giulia Virzì

foto da il Messaggero